Non mi è facile parlare del card. Semeraro, lo ammetto candidamente. Un senso di pudore mi mette in difficoltà, come accade sempre quando ci è chiesto di condividere la propria storia personale, quella che sfiora i ricordi più cari, quelli che conservi gelosamente.
Conosco mons. Semeraro da quasi 40 anni. Sono cresciuto all’ombra dei suoi insegnamenti e del suo esempio. Mi è stato vicino in momenti della mia storia familiare e personale che custodisco nel cuore. Questi sono i motivi per cui ho difficoltà a parlarne: perché o rischierei di essere sdolcinato e mellifluo, o cadrei nella retorica più scontata. Allora vado sul sicuro e dirò quello che ho imparato da lui come teologo e pastore.
Vocazione
Nell’omelia che tenne per la mia prima messa mi fece riflettere con un invito a cui non avevo mai pensato: “ricorda, disse, che se fino a ieri hai chiesto tu di diventare prete, oggi non sei più tu a chiederlo, ma… La Santa Chiesa chiede che questo fratello sia ordinato Presbitero”. Semeraro mi ha insegnato anzitutto questo: la Chiesa dice di aver bisogno di me. Quindi si è chiamati ad una spoliazione per un progetto più grande.
Consacrazione
Don Marcello insegna che la teologia del ministero ordinato si manifesta nell’umanità e la divinità di Cristo, che è il modello permanente del nostro essere uomini. Questo comporta il restare uomini senza cedere alla tentazione di diventare superuomini, senza aver paura anche dei nostri sentimenti. Che desolazione un prete burocrate, freddo, senza slancio, semplice distributore di servizi.
Missione nella Chiesa
Chiesa: la parola santa. È il nome della Madre, della Sposa di Cristo. La Chiesa, per Semeraro, è lo spazio, il respiro, la possibilità del ministero. Don Marcello, in questa Chiesa, è l’uomo del dialogo, della carità senza finzioni, della promozione dei carismi e dei servizi, della comunione. Da docente e da vescovo ho sempre visto in lui questo profondo amore per la Chiesa. Il seminario prima, le diocesi in cui ha servito dopo, l’ufficio che ricopre adesso: tutti mondi fatti di persone concrete, di storie, di volti. La sua teologia del buon senso, come mi piace definirla, ha sempre messo la cultura personale (enorme) a servizio di uomini e donne, adulti, giovani, bambini e anziani impegnati nei mille problemi della vita. Persone che hanno avuto con lui sintonia di pensieri, ma anche diversità di vedute, mille pregi e mille difetti. Le ha amate tutte. Tutte le ha servite.
Una sensazione da vertigine essere amico di un uomo, un prete, un vescovo, un cardinale che al mattino ti manda la vignetta per iniziare la giornata col sorriso, e, magari, subito dopo è a colloquio col Papa per riformare la Chiesa universale, e poi, di nuovo, a chiamare qualche amico che ha problemi di salute per chiedere come va. La sua è, davvero, la teologia del buon senso, la dogmatica dei piedi per terra, il magistero che sgorga dai volti delle persone e non dal libro dotto che va calato addosso a tutti in nome di un fissismo teologico che asciuga le lacrime, ma non guarisce le ferite. La prova più concreta, ancora adesso, è che, in questa mia testimonianza confusa e imbarazzata, non ho saputo scegliere un aggettivo, una carica, un titolo (eminenza, monsignore, don Marcello…) con cui riferirmi a quest’uomo che mi ha insegnato ad amare la Chiesa, questa Chiesa. Faccio mio, allora, quello che diceva il Santo Papa Paolo VI nell’Udienza Generale del 14 dicembre 1966:
Del resto, è ovvio; il buon senso ha la sua teologia: un cristiano autentico dev’essere un galantuomo. L’impegno verso Dio reclama un impegno d’onestà ineccepibile. Nulla scredita maggiormente la religione quanto la sua dissociazione dalle virtù morali. Gesù stesso ha avuto parole d’implacabile severità per il fariseismo, la professione, cioè, ufficiale e meticolosa d’una religiosità esteriore e formale disgiunta dalle virtù basilari della moralità: «la giustizia, la misericordia e la fedeltà» (Mt. 23, 23).