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Con il Mercoledì delle Ceneri liturgicamente comincia il periodo di Quaresima o quadragesima (da quadragesima dies), ossia “il quarantesimo giorno” avanti la Pasqua, un tempo caratterizzato da astinenza e penitenza.

 

 

 

In alcuni centri del Salento, tra le regole di comportamento individuale sancite per l’osservanza del lutto, vi era quella secondo la quale gli uomini, dopo quaranta giorni dalla morte di un congiunto o di un parente, si potessero inserire a pieno titolo nella vita sociale.

Durante la Quaresima era obbligatorio il digiuno, che consisteva nel dovere mangiare di magro, astenersi dal consumare carne, latte, formaggi e uova, tant’è che la pasta al pomodoro si condiva con mollica di pane fritto. Insomma non si poteva ‘ncammerare, ossia mangiare di grasso, altrimenti si rompeva il digiuno. Chi poteva permetterselo, consumava pesce fresco.

In epoca più recente, in molti centri salentini, per impedire che il popolo mangiasse carne durante la Quaresima, un’ordinanza comunale obbligava a tenere chiuse le macellerie!

Ma, com’è facile intuire, vi era sempre chi riusciva a trasgredire, magari il ricco del paese che, fin dall’inizio della Quaresima, si recava dal parroco con una somma in danaro così cospicua che veniva esentato dal rispettare il digiuno e, talvolta, anche l’astinenza. La differenza di classe compare in due proverbi: ci teneete, chi ha, è (considerato, rispettato, assolto, etc.); Signore pruiti li pruetutica li spruetuti sunt’abituati, Signore provvedi i provveduti perché gli sprovveduti sono abituati, ossia i ricchi, non conoscendo la povertà, non saprebbero sopportarla. 

Nei dialetti del Salento il nome della Quaresima è ‘quaresima’, ma diventa Quaremma o Caremma quando indica una pupattola di stoffa rozza, raffigurante una vecchia goffa, vestita a lutto, che già il mercoledì delle Ceneri veniva esposta alle finestre di alcune abitazioni o appesa ai crocicchi dei rioni più popolari.

Il suo volto era costituito da una maschera in cartapesta, da pochi soldi. Fra le mani, in atto di filare, aveva la conocchia e il fuso, mentre da sotto la veste le pendeva un’arancia nella quale erano infisse sette penne di gallina, tante quante sono le settimane di mortificazione e di penitenza.

Ogni settimana dall’arancia si toglieva una penna fino ad arrivare a mezzogiorno del Sabato santo, quando le campane di tutte le chiese con un festoso scampanio annunciavano “la Gloria”, la Resurrezione, e la Quaremma, cosparsa di petrolio, era bruciata.

Questo rito, un tempo molto vivo nel popolino e specialmente tra i ragazzi, soltanto da qualche anno si rinnova in alcuni centri del Salento. Nella raffigurazione piuttosto funerea della Quaremma in atto di filare non è difficile scorgervi un lontano richiamo della Moira, la Parca che filava con la conocchia il destino dell’uomo dalla nascita alla morte. Essa si richiamava dunque a culti pagani. Quella pupattola bruciata e ridotta in cenere offriva poi lo spunto di evocare e di prolungare, per quaranta giorni, l’eco del solenne ammonimento rivolto dal sacerdote ai fedeli durante la messa liturgica delle Ceneri: Memento homoquia pulvis eset in pulverem reverteris.

Di una donna non necessariamente anziana, ma vestita senza alcuna eleganza, oppure come una stracciona, a Lecce si usa dire: pare nna Quaremma, sembra l’immagine di una Quaresima.

I ragazzi di qualche decennio fa, principalmente quelli dei rioni più popolari, si divertivano a dileggiare qualsiasi vecchia che avesse attraversato la strada dove loro sostavano senza fare nulla, indirizzandole la seguente canzone che rivolgevano ugualmente alle quaremme appese ai crocicchi, bersaglio preferito di frecce e sassi:

La Caremma pizzitorta                        La Quaremma dal muso storto

se mangiau la recotta                          si mangiò la ricotta,

se la mangiau scusi scusi                     se la mangiò di nascosto

cu nu la vìtane li carusi.                       perché i giovani non la vedessero.

Li carusi la vitira,                                 I giovani la videro

la Caremma la ccitira.                         e uccisero la “Quaremma”.

Con la variante a Novoli:

La quaremma zzinzulusa                       La quaremma cenciosa

s’ha mangiata la recotta                       si è mangiata la ricotta

a mie nun me nd’à data                         a me non ne ha data

ppufacci te ‘nquatarata.                      ppu! faccia di imbrattata.

PER APPROFONDIRE

  1. R. Barletta, Quale santo invocare. Feste e riti del calendario popolare salentino, Ed. Grifo, Lecce 2013

 

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