Com’è noto il Carnevale termina il martedì grasso cosiddetto per gli eccessi culinari. In alcuni centri salentini, fino a una decina di anni fa, nel penultimo giovedì di Carnevale si celebrava la cosiddetta sciuetia te le cummari, il giovedì delle comari: in questo giorno gruppi di donne amiche, generalmente abitanti nello stesso rione, si riunivano e banchettavano insieme; gli uomini ne erano assolutamente esclusi perché, a loro volta, si riunivano la sciuetia te li cumpari, il giovedì dei compari, precedente al martedì grasso.
A Squinzano e a Novoli si cucinavano fagioli con la cotica, verdura a pignatu, cotta nella pignatta, insieme a pezzetti di lardo, e si preparava lu tacciatu cu lu jammottu, molto simile ai triddhri pasquali, cotti nel brodo ricavato da un osso bollito.
La pietanza per antonomasia del martedì grasso era costituita da polpette di carne al sugo e da carne te puercu, di maiale, popolarmente indicata carne te neru, di nero, o anche carne cu llu pilu, carne col pelo; quest’ultima definizione, dalla trasparentissima allusione, col tempo divenne tabù.
Oltre al consumo abbondante di carne di maiale, Carnevale prevedeva un’abbuffata di dolci al fine di raggiungere il senso di sazietà corporale e di pieno godimento dello spirito; essi dovevano essere preferibilmente fritti (perché saziano maggiormente), morbidi e quanto più possibile aromatizzati.
Quali migliori simboli di trasgressione verbale, si confezionavano (e lo si fa tuttora) le chiacchiere altrimenti denominate bugie o frappe e cenci. Esse rappresentavano la possibilità di sfogarsi verbalmente o dare alla stura chiacchiere e chiacchiere, capaci di mascherare velenose invettive contro ogni potere. In piena libertà e con malcelata disinvoltura. Senza avere paura di incorrere in punizioni o querele.
Dopo avere consumato le pietanze accennate, tajeddhre e pignate, pentole di terracotta, insieme a quatare, pentole di rame, a stoviglie, a tovaglie e tovaglioli, venivano lavate con acqua calda e aceto o con la lessìa, liscivia, oppure con la cenisa, cenere del focolare, ripetutamente e puntigliosamente, al fine di rimuovere anche il più infinitesimale residuo di grasso. In alcune famiglie lo scrupolo era tale che si preferiva addirittura rompere le pentole fino ad allora usate (giacché erano prevalentemente di coccio) e impiegare quelle nuove, precedentemente acquistate per l’occasione. Perfino la parte metallica della grattugia veniva passata sulla fiamma perché bruciasse ogni eventuale residuo di formaggio.
Dopo avere pulito la cucina, era consuetudine recarsi in chiesa per ricevere sul capo la cenere benedetta, simbolo di penitenza, ottenuta dalla combustione delle palme dell’anno precedente.
Alle ventitré, in alcuni centri del Salento, l’ultimo giorno di Carnevale le chiese suonavano le campane per avvertire la gente che stava per cominciare il lungo digiuno della Quaresima, in altri centri accadeva alla mezzanotte quando i sagrestani andavano in giro per le vie suonando un campanello e ricordavano con tono monotono che la baldoria era finita.
Al capezzale del Carnevale morente, rappresentato da un fantoccio imbottito di paglia e stracci e, a volte, ripieno di bombe-carta, che si portava in giro per le vie del centro cittadino o del quartiere, partecipavano le prefiche-questuanti. Con le loro lamentazioni non esprimevano tanto il dispiacere per la scomparsa del gaudente e permissivo Carnevale, quanto il rammarico per la forzata e repentina astinenza da alcuni cibi, infatti recitavano: e’ muertu lu Paulinu! Lu Paulinu miu, chinu te mbrogghie: osce maccarruni e crai fogghie!, è morto Paolino!, Il mio Paolino, coperto di stracci: oggi maccheroni e domani verdure!
Col diminutivo Paulinu veniva denominato il rudimentale fantoccio di paglia e stracci che, nell’ultimo giorno di Carnevale, disteso su un carrettino addobbato di pampini e stelle filanti, seguito ovviamente da una turba di ragazzini vocianti, veniva portato in giro per la città, accompagnato dallo strepito dei tamburelli e dalle finte lamentazioni di improvvisate prefiche-questuanti, che poi erano uomini mascherati da donne.
Lu Paulinu leccese diversamente che altrove, non veniva neppure bruciato; appena imbrunito, ancora prima che le campane avvertissero con mesti rintocchi che stava ormai per scadere, senza alcuna possibilità di dilazione, il termine concesso all’allegria si dileguava discretamente, come ingoiato dalle tenebre, per finire la sua tempestosa, quanto effimera esistenza, nello scantinato o nella soffitta di qualche anonima casupola di povera gente, da dove era stato tratto fuori al mattino.
Per approfondire: R. Barletta, Riti &Culti salentini. Dal Carnevale alla Pasqua, Edizioni Del Grifo, 2009.