Con il presente articolo intendo esprimere la mia riconoscenza e simpatia all’attuale Ufficio diocesano per l’ecumenismo che puntualmente continua a proporre momenti ecumenicamente significativi in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, all’arcivescovo Michele Seccia che incoraggia tali iniziative e a tutti gli esponenti delle altre confessioni cristiane che insieme a don Carlo Santoro si mettono a servizio della nostra diocesi e delle nostre parrocchie per dare testimonianza di fraternità e di unità soprattutto nella preghiera.
La nascita dell’ecumenismo, vale a dire, l’impegno per l’unità dei cristiani, ha avuto origine nel mondo missionario protestante, successivamente nel cuore di papa Giovanni XXIII, a cui si aggiunge il card. Bea, il Papa Paolo VI, Atenagora I, tante altre figure illuminate appartenenti alle diverse confessioni cristiane, quali l’abbé Paul Couturier, il teologo russo Vladimir Soloviev, il pastore Boegner, Visser’t Hooft, fondatore del consiglio ecumenico delle chiese, per fare solo alcuni nomi.
E la motivazione di questa molteplice fioritura dell’ecumenismo può essere riconducibile, dal punto di vista fenomenologico, ad una saturazione del senso di autosufficienza che per secoli aveva caratterizzato non solo la Chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. Le divisioni e le contrapposizioni fra le diverse confessioni cristiane, che nel passato avevano prodotto anche forme di violenza fra gli stessi cristiani, non trovavano più alcuna giustificazione; anzi venivano considerate sempre più come grave scandalo.
Dal punto di vista della fede cristiana, la nascita dell’ecumenismo si configura come la presa di coscienza che il peccato non è legato solo alla singola persona ma anche alle stesse chiese, che alla conversione sono chiamate le chiese.
Il cammino ecumenico ha registrato diverse tappe. In una prima fase, l’unità dei cristiani è stata considerata da noi cattolici come “ritorno” delle Chiese alla Chiesa romana, il cosiddetto “ecumenismo di ritorno”. Dal senso dell’autosufficienza delle singole chiese si è passati a riconoscersi Chiese di Cristo bisognose di convergere tutte verso Lui. L’unità dei cristiani ritornava così ad essere unità in Cristo e non più ritorno di una Chiesa verso un’altra Chiesa che si autodenominava la vera Chiesa.
Questa stagione dell’ecumenismo cristocentrico e non più ecclesiocentrico ha prodotto tanti buoni frutti non solo sul piano della riflessione teologica comune con la pubblicazione di numerosi documenti interconfessionali su aspetti cruciali della vita cristiana ma anche iniziative di solidarietà portate avanti insieme. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è diventata sempre più un luogo e un’occasione dove cattolici, anglicani, ortodossi, protestanti hanno praticato lo scambio di accoglienza nelle proprie comunità. Rimane da fare ancora qualche ulteriore passo in avanti. Quali motivi oggi possono spingere le diverse confessioni ad avere a cuore l’unità dei cristiani, quando oggi più che mai è in crisi l’unità delle singole comunità e dei singoli credenti a motivo di un inesorabile processo di scristianizzazione? Forse per molti anni abbiamo taciuto, anche come operatori dell’ecumenismo, che l’unità dei cristiani e l’unità del cristiano sono inscindibili. Le linee direttrici che il movimento ecumenico ha individuato per riprendere il cammino dell’unità delle chiese sono anche il criterio da tener presente per vivere in comunione con i membri della comunità di appartenenza e in comunione con noi stessi. Come cattolici abbiamo un punto di riferimento che ci aiuta a vivere l’ecumenismo ad extra con le altre confessioni e ad intra con le nostre comunità: il Concilio Vaticano II. Il Padre Congar afferma che ogni documento, ogni frase, ogni parola del Concilio orientano all’ecumenismo. L’intero linguaggio del Concilio è un linguaggio di comunione, di grande attenzione a non offendere la sensibilità dei non cattolici. L’ecumenismo, infatti, esige che si faccia attenzione non solo agli atteggiamenti ma anche al vocabolario.
I documenti conciliari non sono importanti soltanto per il loro contenuto ma anche perché contengono la “grammatica” della comunione ecclesiale, rispettano la cosiddetta “gerarchia delle verità” che consente a non contrapporre verità a verità ma a valorizzare la dimensione generativa delle verità: una verità nasce da un’altra verità e tutte le verità vanno ricondotte alla persona di Cristo. L’aver ignorato questa grammatica della comunione ha causato nel passato le tragiche divisioni all’interno del cristianesimo, ma anche oggi diventa la causa delle tante divisioni intestine e dell’avanzare di una religiosità scollegata dal centro della fede.
Penso che sia arrivato il momento in cui l’ecumenismo debba essere il cuore stesso della pastorale ordinaria. Costruire comunità cristiane equivale a costruire unità, comunione a tutti i livelli, personale, parrocchiale, diocesana, confessionale. Non è più concepibile usare “grammatiche” diverse, linguaggi diversi, a seconda se si parla ai soli cattolici o a cristiani di diverse confessioni. Come non va per niente bene far uso della cosiddetta “doppia verità”, una vecchia prassi che in buona fede tanti preti nel passato e forse ancora oggi adoperano a seconda se hanno a che fare con fedeli cosiddetti “simpliciores”, quelli delle feste patronali per intenderci o con fedeli più elevati. Tutto questo è ancor più urgente in un orizzonte di una nuova evangelizzazione, dove la gerarchia delle verità ci spinge a riprendere il linguaggio del kerigma, che anche oggi conserva intatto tutto il sapore della fede cristiana nella sua essenzialità.
Rimettere al centro dell’attenzione l’importanza e la gioia di sentirsi discepoli dell’unico Maestro, pecorelle guidate dall’unico Pastore, significherebbe intraprendere insieme, anche a livello interconfessionale, il cammino di una nuova evangelizzazione. E se permettete, ridare importanza a quel nome di cui neppure ci accorgiamo di avere addosso: cristiano/cristiana; ricordarci la sua provenienza: cristiano/cristiana deriva da Cristo. Nei primi secoli era a causa di quel “nomen” che si veniva perseguitati e condotti al martirio. Nella grammatica della comunione questo significa che tutte le altre connotazioni: cattolici, protestanti, ortodossi, anglicani, l’essere vescovo, pastore, teologo, fedele laico, religioso, non precedono ma seguono il nome di cristiani che tutti ci accomuna e che da solo ha la forza di tenerci uniti in tutti gli ambiti della Chiesa e della società.