Mi piace offrire questa riflessione partendo dalle due antifone alla comunione nella festa dei Santi Simone e Giuda Apostoli: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23; “Gesù ne scelse dodici, perché stessero sempre con lui” (Mc 3,14).
Cinquant’anni di un sì d’amore speranzoso, misericordioso, coinvolgente da parte del Signore verso di me, e cinquant’anni di lode per la sua misericordia, di rendimento di grazie, di richiesta di perdono e di affido da parte mia. Molti sono abituati a vedere o immaginare il sacerdote più come elargitore di servizi religiosi; o come organizzatore di iniziative parrocchiali, esperto in discipline teologiche, come ministro dei sacramenti e dell’eucaristia, come educatore della gente: tutte dimensioni importanti, ma meno come amico intimo di Cristo, testimone di una vita diversa da quella terrena, compenetrato profondamente nel mistero del Signore Gesù attraverso il raccoglimento e la preghiera, insegna Presbyterorum Ordinis,14, e come mistero.
Si, il sacerdote è un mistero a se stesso e agli altri, un mistero rischioso, inquietante, direi, perché è trasparenza di Dio e il rischio più grande lo vive proprio Lui che si fida di questo suo servo guardandolo nel profondo. Vogliamo lodare Signore perché ha scelto me e i tutti i sacerdoti per “stare”, lì dove stare indica progettualità di vita che si rispecchia in Lui e che continua la sua; uno stare che indica permanente esperienza d’amore: “Pietro mi ami tu?” (Gv 21,15).
Il vescovo Domenico D’Ambrosio in una lettera ai sacerdoti del 14 dicembre 2014 sintetizzò il ministero del sacerdote con tre verbi: “salire, stare e scendere” con la quale richiamava l’arditezza ed il fascino di questa chiamata. Il salire significa lo stato permanente di purificazione, di fatica nella sequela, di desiderio di Dio: “O Dio, tu sei il mio Dio all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne…” (Sal 62,2); “Chi salirà il monte del Signore, chi sarà il suo luogo Santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro…” (Sal 23,3-4). Siamo chiamati ad una continua salita che richiede di liberarci da quella “zavorra” che impedisce la scalata per avere un cuore decisamente orientato a Lui. Il sacerdote non è perfetto, ma è chiamato ad esserlo direi come e più di ogni discepolo: “Siate voi dunque perfetti come è il perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48); un discepolo non solo, ma insieme al vescovo, a tutta la comunità dei sacerdoti e alla gente. La sua missione è proprio quella dei grandi della Bibbia: Abramo, Mosé, i Profeti, Giovanni Battista che aiutavano il popolo a salire sulla santa montagna che è Dio stesso.
Il sacerdote non è l’uomo che organizza la vita di fede degli altri, ma uno che primariamente si sente chiamato, ogni giorno, all’ascolto profondo di Dio; è uno che sentendosi chiamato, fa di Dio e del suo popolo il centro della sua vita. È l’uomo di tutti, per tutti e con tutti sale la santa montagna, che è Dio stesso. Per questo è l’uomo del silenzio, cioè del mistero e vive nella comunità, non come un manager, ma come il chiamato condotto ogni giorno alla comunità dalla fecondità dell’ascolto. È un profeta, uno che parla di Dio al popolo per parlare al popolo di Dio. È un innamorato del silenzio dove Dio parla e dove l’amore lo rende capace di annunzio. Incarna una vita attraverso la quale mette in evidenza che cosa succede quando si ascolta Dio. Il sacerdote in modo particolare, ma il popolo di Dio tutto è ascoltatore di Dio nel tempo della storia e la sua vita, come quella del popolo, è conseguenza di questo ascolto profondo. Un ascolto che fa salire, giorno dopo giorno, sulla Santa Montagna tra fatiche e speranze, gioie e dolori. La vita del presbitero è il sacramento dell’ascolto e proprio per questo è chiamato ad aiutare il popolo a desiderare Dio: “O Dio, tu sei il mio Dio all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua” (Sal 62,2). La vita del sacerdote dipende dall’ascolto di Dio e della gente. Lo stare in silenzio davanti a Dio deve essere di conseguenza, l’occupazione primaria di colui che è stato chiamato a guidare il popolo santo di Dio. L’ascolto lo porta a salire giorno dopo giorno, con piedi di cerva sulle alte vette; a prendere la croce condividendo Cristo, camminando sulla sua stessa strada; lo porta a rinnegare se stesso senza scelte egoistiche, portando la croce, a volte pesante, dei peccati propri e della comunità, della sequela di Cristo, che è imitazione del Maestro, il quale chiede radicalità di scelta di vita personale e comunitaria che porta a configurarlo a Lui, soprattutto nella sua obbedienza al Padre; che lo porta a salire, nella quotidianità, insieme a Cristo Gesù, la croce dell’abbandono, dell’ubbidienza, dell’offerta di vita, che è il più grande segno di amore, nella povertà, che è il seno fecondo della sua vita.
È duro questo salire ma è la fatica che prepara e abilita all’incontro, allo “stare” fecondo davanti a Dio. Il Signore chiama i suoi servi a stare con lui. Questa è la dimensione contemplativa del prete. Siamo chiamati a salire per “stare”, per ascoltare, per farci ascolto nella pratica del silenzio, imparando da Dio, che è silenzio fecondo. Un silenzio non come assenza di parole, ma come esperienza coinvolgente di un incontro amante fecondo, di un incontro che è intensità d’amore, che è abbandono contemplativo, esperienza di essere abitati, luoghi dove il Signore prega in noi. Trovare in Dio, nella nostra temporalità, la gioia dell’essere, la fecondità pastorale e intercedere non solo nelle celebrazioni, ma in una relazione permanente con Lui, ci fa essere contemplativi, umili, poveri, in ricerca costante di Lui, del suo cuore, abbandonati alla sua volontà e fiduciosi della sua misericordia. Il salire senza lo stare non ha senso: praticare, faticare e ancora faticare dove questo significhi programmare una pastorale; ingolfarsi in un quotidiano spesso quasi “etsi Deus non daretur” è peccato di protagonismo sterile che gratifica l’io, ma non dà gloria a Dio. Sì, il sacerdote o è un contemplativo fecondo o è un manager organizzatore di eventi religiosi e non, di celebrazioni che soddisfano il presente ma non permettono di entrare nel mistero di Dio che si è manifestato sul Golgota nel Cristo crocifisso.
Prete chi sei? Un innamorato estatico di Cristo Crocifisso; un trasfigurato dove il mistero di Dio amore dilaga fino in fondo: questo lo fa essere unito a Cristo, un contemplativo, non il tecnico esperto nella pastorale, il manovale dai tanti servizi e iniziative, ma un appassionato di Dio per il quale ha lasciato tutto. La contemplazione ispira il fare come opera di Dio ed il fare porta alla contemplazione del Mistero. Il sacerdote non è un monaco o forse lo potremmo anche considerare tale se il suo fare esprime l’amore che viene dall’Alto, ne è l’espressione, o se si vuole, ne è il sacramento. Allora il fare sacerdotale non è strategia operativa. Contemplare non è estraniarsi, ma essere più in Dio per essere luminosi della sua luce. L’ itinerario spirituale esige molta fedeltà all’amore. Il sacerdote è chiamato a trasformarsi in una fiamma viva di amore.
La contemplazione trasforma in amore la sua quotidianità facendo sì che il suo ministero sia l’espressione dell’amore di Dio che lo travolge a tal punto da essere una sola cosa con Lui. Scende dalla santa montagna ed intercede perché ascolta il grido della gente. La pastorale o scaturisce dall’incontro con Dio o rischia di essere gratificazione dell’io, incapace di portare a Dio. La fecondità e la bellezza della comunità scaturiscono sempre da persone che siano laiche, o consacrate, o vescovi, o presbiteri, o diaconi contemplativi che offrono il vero Bene. La contemplazione si trasforma in comunione, in annuncio, in servizio all’interno e fuori dalla comunità, in canto di lode, in rendimento di grazie. Un sacerdote contemplativo, vivendo la comunione con Dio vive per i fratelli, con i fratelli e nei fratelli costruendo la comunità sulla roccia sicura: Cristo Signore, sacerdote, vittima d’amore, contemplativo del Padre, appassionato dell’uomo.