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Come procede il cammino sinodale nella Chiesa cattolica? Ne parliamo con don Rocco D’ambrosio, ordinario di filosofia politica presso la facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

 

 

 

Don D’Ambrosio, sono trascorsi otto mesi dall’ottobre 2021, quando Papa Francesco ha inaugurato i cammini sinodali nella diocesi di Roma e in tutte le diocesi del mondo. Dal suo osservatorio alla Gregoriana, dove ci sono studenti provenienti da tante parti del mondo, che “polso” si ha dei cammini diocesani nelle diverse aree geografiche del mondo? In America Latina si è recentemente svolta una assemblea sinodale promossa dal Celam… In Germania ha avuto luogo un Sinodo tedesco che ha suscitato molte discussioni anche nelle Chiese sorelle…

Per quello che riesco a sapere e comprendere, almeno per la situazione italiana, forse la maggior parte delle diocesi, parrocchie e aggregazioni varie non ha preso sul serio il cammino sinodale e le esperienze qualificate sono una minoranza. Ma forse mi sbaglio. Non penso che ci siano dati ufficiali in merito. Sulla situazione in altri Paesi, in realtà, non ricevo molti riscontri dai miei studenti.

 

 

La Conferenza episcopale italiana ha infine accolto l’invito che Papa Francesco le aveva rivolto nel 2015 di svolgere un cammino sinodale italiano. Nei propri comunicati stampa, la Conferenza informa che tante diocesi stanno vivendo con entusiasmo questo tempo sinodale. Si dovrebbe dire, quindi, che siamo dinanzi ad un kairòs, ad un tempo favorevole per la conversione comunitaria… Di cosa ha veramente bisogno, secondo lei, la nostra comunità ecclesiale, noi credenti in Gesù che viviamo in Italia?

Per quello che comprendo, molte volte mi pare che si risponda ad alcune domande in maniera non approfondita. Forse sfugge, in alcuni casi, che questo è “un sinodo sul sinodo”, cioè un sinodo che vuole riflettere sul nostro essere Chiesa attraverso la lente della sinodalità. Questa caratteristica, a mio avviso, rende il cammino abbastanza difficile e presenta diversi ostacoli, perché non è facile interrogarsi sul nostro essere Chiesa considerato nella sua totalità. Sarebbe stato più facile affrontare un singolo argomento.

 

 

Lei ha recentemente dato conto di una giornata di studio presso la facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana, dal titolo “Synodos come Methodos. Sul con-filosofare (symphilosophein)”. Quali apprendimenti potrebbero arrivare ai nostri pastori ed alle nostre comunità da giornate come questa?

Il primo elemento è che la “sinodalità” è una caratteristica antropologica che segna ogni realtà umana. Dico meglio. Aristotele precisa che colui che per primo portò gli altri a formare una comunità politica, fu l’autore di un grande bene, perché è stato capace di portare le persone a vivere insieme e a realizzare una vita virtuosa e felice. La Arendt, in quest’ottica, precisa che la sfera politica sorge direttamente “dall’agire insieme, dal condividere parole e azioni”. Pensiero e azione nascono in condivisione. Tutto ciò, a mio modesto avviso, non mortifica o toglie il valore della ricerca personale ma la concepisce e la proietta sempre in un’ottica di gruppo: si giunge a una scoperta scientifica o a una verità per condividerla, e così la si conferma, rafforza, amplia. Infatti, la trasmissione del sapere è un fatto collettivo, comunitario.

 

Secondo lei a che punto è la relazione tra comunità ecclesiale e le poleis civili? I cammini sinodali possono offrire un aggiornamento, un miglioramento, un rafforzamento di questi legami?

Il Sinodo serve anche a questo! È essenziale riflettere sul rapporto delle comunità cattoliche con il mondo, il territorio, le città… Insomma, con tutto quello che è “oltre” il recinto di un’aula liturgica o di una sagrestia! La “Chiesa in uscita” di Papa Francesco è anche questo: comunità, pastori e credenti aperti al mondo, secondo lo spirito del Vaticano II, per leggere i segni dei tempi, comprendere e amare il mondo per annunciare a tutti e in tutti gli ambienti il Vangelo.

La lingua greca contiene due parole per indicare il potere: exousia e kratos. Per exousia possiamo intendere il potere che Gesù ha consegnato a noi discepoli. Per kratos, il potere che incontriamo nel quotidiano e che esercitiamo, un potere solido, ma a volte pesante… Lei ha scritto recentemente il libro “Il Potere”. Come i cammini sinodali possono trasformare la mentalità cattolica in relazione al potere?

Nella cattolicità italiana spesso si ha un rapporto schizofrenico con il potere: lo si ama o lo si odia a seconda del momento storico e del contesto in cui se ne parla (personale, comunitario, civile ecc.). Questo squilibro porta spesso a forme retoriche di riflessione sul potere (si pensi all’abuso della parola “servizio”) o a vere perversioni di esso. Abbiamo bisogno di imparare sempre cosa il potere sia, come esercitarlo senza retorica, falsità o degenerazioni, e portare questa riflessione nei luoghi dove si pensa e decide. Come il Sinodo…

In questi giorni si fa un gran parlare - purtroppo - della necessità che il desiderio di pace, di cui la comunità cristiana ha fatto negli ultimi tempi un valore forte, sia coniugato, quantomeno, alla solidarietà concreta verso le vittime di un’aggressione. Il pericolo è che in questo dibattito ci si laceri su fronti opposti. Come si può evitarlo?

Mi ha molto intristito il fatto che, anche nella comunità cattolica italiana, il dibattito sulla guerra in Ucraina sia stato molto polarizzato e divisivo. Continuo a pensare che la ricerca per la pace, ovunque e comunque, non si opponga al principio della legittima difesa popolare, come il Magistero sociale cattolico insegna. Tra i tanti riferimenti mi piace citare Giovanni Paolo II: “Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore. Queste, tuttavia, devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi” (Pace in terra agli uomini che Dio ama, 1° gennaio 2000).

Secondo Lei quali di questi criteri possono essere adeguati a valutare, con spirito di verità e carità, i nostri cammini sinodali.

Per farsi rinnovare dal cammino sinodale, al di là delle singole esperienze personali e comunitarie, bisogna mettere in crisi un diffuso modello di Chiesa. Sinteticamente mi riferisco, almeno in Italia, a un modello che sembra avere molte certezze e pochi dubbi; che insiste solo su alcuni temi morali e trascura altri, che ricerca la maggioranza numerica e la preminenza culturale; che tende ad accrescere privilegi e sussidi statali; che non è molto vigile su degenerazioni del potere e corruzione; che si organizza in maniera molto gerarchizzata e clericalizzata; che forma male e promuove poco il laicato. È lo stesso modello di Chiesa che sembra essere poco attento ai temi cari a questo pontificato. Per Papa Francesco la riforma si attua se si ridà vitalità teorica e pratica a temi quali l’opzione preferenziale per i poveri, un nuovo slancio missionario, la povertà e la sobrietà nella vita ecclesiale, l’impegno per la giustizia e la lotta contro la corruzione di tutte le istituzioni (Chiesa cattolica inclusa), il debellare la piaga della pedofilia, la collegialità episcopale, la sinodalità, la promozione del laicato, l’attenzione ad alcune prassi familiari, un rinnovato impegno ecumenico, la cura della natura, per citare i maggiori. Potrebbe aiutare la meditazione di quanto scriveva Jean Guitton: “La storia della Rivoluzione francese, che non ho qui il bisogno di ricordare, è un esempio di questa legge della storia, la quale vuole che un’azione troppo forte porti ad una reazione a sua volta troppo forte, e sia così necessario molto tempo perché la verità dell’azione, combinata con la verità della reazione, dia origine a una sintesi. Oggi siamo arrivati ad un momento della vita della Chiesa in cui è grande il pericolo che l’eccesso delle verità conduca a degli errori; è il momento drammatico in cui non si deve più continuare sulla strada in discesa. Questo perché tale discesa porterebbe all’abisso”.

 

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