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Da cosa dipende la pace? È l’interrogativo che in questi giorni continua a circolare non solo nel linguaggio dei responsabili delle nazioni, degli organismi sovranazionali, dei capi religiosi, degli esperti, ma sempre più nella nostra quotidianità.

 

 

 

Ancora prostrati da una pandemia che ha descritto il mondo negli ultimi due anni, abbiamo avvertito i segnali della guerra diversamente dal solito. Ci siamo accorti d’un tratto, che il mondo appare diverso negli scenari, nelle possibilità di azione e, soprattutto, nel suo futuro. Che poi è il domani di circa 8 miliardi di persone. Anche chi si fa difficilmente coinvolgere o è solito interessarsi ad altro, oggi si chiede se e come continuare a parlare di pace.

Questa volta sta cambiando qualcosa anche per noi del mondo occidentale abituati a ripetere che da settantasette anni “avevamo la pace”. Magari dimenticando o volutamente ignorando, le tante guerre in atto, solo perché lontane dalla nostra latitudine: pur disponibili e pronti ad ogni possibile gesto solidale, le guerre degli altri ci sfioravano, affidate alle immagini, alle cronache e agli addetti ai lavori. Lo stesso conflitto nei Balcani degli anni ‘90 del secolo scorso, l’avevamo rapidamente derubricato a scontro interetnico, aggiungendo che si trattava delle aspirazioni di popoli a cui l’ideologia aveva impedito di raggiungere i grandi traguardi delle libertà e dei diritti. Adesso, invece, cominciamo a capire che la nostra pace è semplicemente un’assenza di guerra. Che la frammentazione è una realtà che oppone non solo Paesi ricchi e poveri o modelli istituzionali ed economici, ma rapidamente si è trasformata nella contrapposizione divisioni politiche e delle armi, quelle di cui si dispone e quelle rese disponibili.

Se ne sono accorte le cancellerie dei Paesi europei dinanzi al vecchio continente nuovamente sede di combattimenti a seguito dell’aggressione della Russia sul territorio dell’Ucraina, con conseguenze inattese che vanno dalle strategie militari agli spostamenti forzati di popolazione, alla decisione di stabilire sanzioni vagliandone le conseguenze economiche, fino alla disponibilità di fonti di energia. Un quadro complesso dove probabilmente non è ancora chiaro se a guidare prese di coscienza o determinazioni politiche sia la corsa alle risorse e la loro disponibilità o piuttosto il dramma delle vittime dei crimini, degli eccidi, dei profughi e degli sfollati. Probabilmente si continua a ricercare quel “giusto equilibrio” che per secoli le potenze europee sono state abituate a rincorrere e che nel 1975 strutturarono il processo di Helsinki, inclusivo del Nord America e dell’Asia sovietica. I dati del cambiamento, però, dicono che non siamo più in un mondo che guarda all’Europa. È l’Europa a rincorrere le altre aree e in esse i protagonisti della vita internazionale. E, allora, è facile accorgersi che non solo ogni conflitto è interdipendente, ma soprattutto che la guerra in terra ucraina ha sprigionato la volontà di regolare altre situazioni.

Così, infatti, si legge la ripresa di scontri in Terra Santa nei giorni significativi della Pasqua cristiana ed ebraica e nel pieno del Ramadan; i segnali di forza sulla coesistenza tra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina che si trasformano in rivendicazioni; gli attacchi ai siti religiosi in Myanmar; l’uso dell’arma degli aiuti alimentari in Tigray per chiudere un conflitto teatro di atrocità e crimini. E si potrebbe continuare, non per elencare situazioni, ma per cogliere come il futuro immediato dipende da questioni mai risolte e solo in apparenza dimenticate, frutto di problemi risalenti e sempre accantonati che ora in una generale incertezza (o caos?) si vorrebbe chiudere secondo la logica del fatto compiuto.

Sono indicatori che mostrano come non sarà facile chiudere la guerra in Ucraina, anzi lanciano i presupposti per un allargamento dei partecipanti o almeno degli interessati che a vario titolo e con modi diversi si presentano - o si proporranno - come parte del conflitto forse per ammantare altri coinvolgimenti e mire …altrove. Un allargamento di fronte al quale la necessità di un cessate il fuoco, nell’immediato si concentrerà nel proporre tregue armate, magari con il reclutamento di contingenti militari internazionali o ricorrendo alla minaccia reciproca della deterrenza. È chiaro che si tratta sempre di sospensione dell’uso delle armi e non di pace, ma realisticamente di fronte a crimini di guerra - e forse anche di crimini contro l’umanità - è la sola finalità che il negoziato può raggiungere, cosciente del limite e dell’incertezza.

A questo dovranno aggiungersi piani d’azione per fronteggiare gli squilibri sull’economia globale ad iniziare dalla mancanza di prodotti agricoli e alimentari di base. Effetti del conflitto che nella situazione attuale andranno a toccare Paesi già deboli, ma poi gradualmente anche gli altri.

Da cosa dipende la pace, ci chiedevamo. Noi cristiani abbiamo appena invocato Dio, nella Preghiera universale, di essere liberi da pandemie, guerre e fame. E sono invece le realtà che ci angosciano e ci limitano in questo momento. Se le soluzioni restano lontane o rimangono limitate, abbiamo però il dovere di continuare a sperare, non ad illuderci, ma a coltivare quella speranza che ci chiama in causa come protagonisti, nel pregare, nel pensare e nell’agire. Per essere strumenti che concorrono a dare compimento e realizzazione a quell’invocazione a peste, fame et bello libera nos Domine.

 

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