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Un pensiero preannunciato e inatteso: preannunciato perché frutto della preghiera e di un cuore paterno che ama e accompagna i suoi sacerdoti e che ad essi aveva parlato in tono affettuoso nella meditazione del giovedì santo (1° aprile, giornata sacerdotale ndr); inatteso perché nessuno immaginava potesse essere il dono dell’arcivescovo Michele Seccia ad ogni presbitero al termine della messa crismale di ieri sera.

 

 

 

“I discepoli si rallegrarono al vedere il Signore” (LEGGI QUI) costituisce una vera e accorata meditazione che il presule leccese ha voluto offrire ieri al termine della Messa del Crisma ai suoi primi e più diretti collaboratori, i sacerdoti, circa un aspetto fondamentale per la loro vita e il loro ministero: la gioia.

In un contesto caratterizzato dalla crisi, da tristezze e paure, ogni sacerdote è chiamato, al dir del presule, ad essere testimone della gioia, punto di riferimento in mezzo al popolo per il quale si spende ogni giorno e segno concreto della presenza di Cristo che guida e accompagna la sua Chiesa.

Scrive il vescovo: “la gioia sacerdotale, di cui parliamo, si distingue dalla gioia esteriore, dovuta essenzialmente agli avvenimenti esterni e contingenti della vita; essa, infatti, è gioia interiore, profonda e cresce in relazione all’incremento della vita intima con Dio e delle opere di carità. Infatti, ognuno di noi ha sperimentato la gioia come frutto dell’amore, frutto del bene compiuto […]. Il sacerdote sperimenta questa gioia in ogni momento della sua vita, perché essa è radicata e fondata sulla fiducia nell’amore di Dio, che avvertiamo come Padre buono, che ogni giorno rinnova il suo amore per noi”.

Distinta dalla ilarità e dalla goliardia, dalla serenità e dalla contentezza, la gioia che sovente Seccia richiama all’attenzione di ogni sacerdote trova la sua sorgente in una assidua e attenta vita di preghiera e poggia sulla consapevolezza che nel proprio ministero il presbitero è costantemente guidato dal Sommo ed Eterno Sacerdote della cui azione salvifica è chiamato ad essere prolungamento e continuatore.

Ancora il pastore leccese: “la sorgente cristiana della gioia è la preghiera […]. Oggi il mondo ha smarrito questa gioia autentica perché ha perso lo spirito di orazione. Sappiamo bene che la preghiera implica lotta interiore, significa vincere le tentazioni della superficialità e dell’efficientismo. Eppure la preghiera, quando diviene intensa e si trasforma in vero combattimento, produce effetti straordinari nell’anima. La preghiera vince le inquietudini, sostiene e rafforza la volontà di aderire al Signore, mette nel cuore la pace e, pur in mezzo alle contraddizioni della vita quotidiana, ci mantiene fermi e decisi sulla via di Dio. Questo è ciò che ci insegna Gesù nell’orto degli Ulivi, quando, dopo aver terminato la preghiera […] con un animo fermo e determinato, si rivolge ai discepoli addormentati nel torpore della notte ed esclama: “Alzatevi, andiamo!” (Mc 14,42). Da quel momento, il Signore manifesta una forza d’animo soprannaturale che lo porterà a morire con dignità regale sulla Croce, così da far esclamare al centurione: “Veramente costui era Figlio di Dio” (Mt 27,54)”.

Il sacerdote, allora non è l’uomo delle lamentele, del chiacchiericcio, bensì colui che semina nel mondo il buon umore e il buon profumo di Cristo e nella sua azione quotidiana sparge il buon grano della gioia che alimenta la comunione, anche a costo di sacrificio, come nella logica del chicco di grano che se caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, cioè si dona, produce molto frutto (cfr. Gv 12,24)

Rimarca nuovamente Seccia: “la comunione tra noi non può che essere ricolma di autentica gioia, per il semplice fatto che ogni incontro in Cristo produce la gioia della sua presenza: “Dove sono due o tre persone riunite nel mio nome, là ci sono io” (Mt 18,20). Quante volte invece, le assemblee liturgiche assumono l’aria melanconica oppure i nostri incontri non lasciano trasparire questa gioia! Crediamo realmente che laddove vi sono due cristiani, lì vi è il Signore? Sappiamo che Lui realmente ci attende in ogni incontro che svolgiamo, in ogni catechesi che prepariamo e in ogni attività che promuoviamo? Senza questa dimensione di gioia, la comunione non sarebbe autentica e non avrebbe il tratto distintivo dell’amabilità. In ogni situazione, anche quando si è chiamati ad ammonire e rimproverare, il sacerdote deve conservare quel tratto di amabilità che avvicina il gregge al pastore. Infatti, sarà proprio l’amabilità a consentire alle pecore di riconoscere la voce del pastore e a diffidare dei mercenari, ai quali non importa il destino del gregge, quanto piuttosto il proprio tornaconto personale.

Dalle pagine donate dal pastore ai propri sacerdoti, emerge, pertanto, uno stile e una sfida: lo stile del presbitero, uomo preso tra gli uomini e ad essi inviato per essere collaboratore della loro gioia; la sfida di una fraternità sacerdotale che nell’orazione e nella custodia fraterna riesce ad attualizzare “quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 132,1), a servizio del Regno di Dio.

 

Forum Famiglie Puglia