“Il divario fra Nord e Sud verrà colmato solo nel 2020”. Questo è il titolo apparso sulle colonne del Corriere della Sera il 13 settembre 1972.
Cinquant’anni fa un grande meridionalista cattolico come Pasquale Saraceno, dolendosene, si sbilanciava in questa amara previsione. Considerato, infatti, che la Cassa per il Mezzogiorno aveva già 22 anni di vita e che le Partecipazioni statali (già nate sotto il Fascismo e divenute un Ministero nel 1956) erano realtà consolidate, spostare di quasi mezzo secolo (al 2020) il traguardo di un Sud allineato alla parte economicamente e socialmente più forte del Paese, era nei fatti un’ammissione di dolente sconfitta. Una consapevolezza che solo l’ottimismo della volontà che animava tanti innamorati del Sud, come Pasquale Saraceno e prima di lui il grandissimo don Luigi Sturzo, poteva attenuare.
Sono dunque trascorsi 50 anni da quel titolo comparso sulle colonne del Corrierone, ma la questione meridionale, nel frattempo quasi scomparsa dai radar dell’informazione e della politica, ha mutato volto e dimensioni continuando a interrogarci. Saraceno, nato a Morbegno in Valtellina da genitori meridionali (papà siciliano e mamma campana), a quel tempo era presidente della Svimez (carica tenuta a vita) e in quella veste aveva già maturato, dopo gli anni dell’Iri e della Cassa per il Mezzogiorno, una visione critica sull’impatto dell’industrializzazione del Sud fondata solo su acciaio e petrolchimica. Eppure, non poteva immaginare che l’innovazione forzata e i mastodontici investimenti pubblici non avrebbero creato le condizioni per un’economia diffusa e un diverso protagonismo delle popolazioni meridionali. Su questo gravissimo ritardo già si appuntavano, nel 1972, le critiche severe del Corriere della Sera che evidenziava l’arretratezza persistente: “esiste una mentalità arcaica che crede nel mattone, nell’investimento redditizio di tipo classico, assai più di quanto creda nella tecnologia e nel management. O nella carriera statale. O peggio, nel clientelismo politico”.
Con la denuncia di un’aggravante: la grande industria non aveva stimolato le iniziative private in grado di sostituire la smobilitazione progressiva dell’agricoltura.
Il resto è storia del nostro Paese, con alcune costanti. A partire dall’emigrazione dei meridionali. Dopo i grandi esodi a cavallo delle guerre mondiali verso gli Stati Uniti e l’America del Sud, toccò ai cafoni (Anni 50/60) verso la Svizzera, la Germania e il Belgio e infine ai giovani laureati che rimpolparono a partire dai primi Anni Settanta i ranghi della scuola italiana nelle regioni del Nord e l’intero comparto del pubblico impiego. Sino al più recente fenomeno migratorio dei giovani laureati meridionali, armati di trolley e computer, attirati dalle nuove carriere digitali e finanziarie. Ovviamente concentrate nel Centro-Nord del Paese.
Altra costante, non meno preoccupante, quella segnalata nel Rapporto della Banca d’Italia solo pochi mesi fa: l’arretramento globale del Sud rispetto al Nord dopo la crisi finanziaria (2008-2009) e quella successiva dei debiti sovrani (2011-2013).
“Il Mezzogiorno, che già dagli Anni Ottanta aveva mostrato difficoltà nel mantenere il passo con il resto del Paese - hanno denunciato gli economisti - ha visto progressivamente diminuire il suo peso economico, evidenziando una crescente difficoltà nell’impiegare la forza lavoro disponibile, una riduzione dell’accumulazione di capitale, in precedenza fortemente sostenuta dall’intervento pubblico, e una minore crescita della popolazione rispetto alle aree più avanzate del Paese dove si sono concentrati i flussi migratori”.
Dunque, dagli Anni Novanta e sino ad oggi, le famiglie meridionali hanno costruito con enormi sacrifici il futuro dei figli facendoli studiare, ma regalandone le capacità produttive alle zone forti del Paese. Senza esagerare, sembra quasi una forma di sofisticato neocolonialismo. Con un Sud come bacino di intelligenze e capacità da spendere altrove, in particolare nei grandi centri di produzione del Centro-Nord.
A fronte di tutto questo e solo per provare ad attenuare il divario Nord-Sud, ora si punta sulle ricadute del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). In particolare, in due ambiti fondamentali nei quali il gap Nord-Sud è enorme: il ruolo e la qualità della pubblica amministrazione orientata al conseguimento dei risultati; il rafforzamento dell’iniziativa privata attraverso la riduzione del divario infrastrutturale, lo sfruttamento del potenziale delle aggregazioni urbane e l’innalzamento del tessuto produttivo. Un’autentica scommessa, l’ultima, sul Mezzogiorno e sui suoi uomini, ma soprattutto sulle sue donne e i suoi giovani.
Senza farsi sedurre dalla sirena delle promesse o delle previsioni. Nessuno si azzardi, questa volta, a fare pronostici. Che a volte, come nel caso di Pasquale Saraceno, si rivelano ancor più negativi delle previsioni. Non possiamo sapere come sarà il Sud dopo che saranno state spese le ingenti risorse previste dai fondi europei e da quelli italiani. Ma sarebbe una beffa se solo fra dieci anni (non cinquanta) dovessimo fare i conti con un Mezzogiorno ancora drammaticamente in ritardo. Non potremmo perdonarcelo. E con noi i tanti meridionali che hanno voglia di fare e non si piegano né alle mafie, né alla corruzione, né all’inefficienza. E soprattutto vorrebbero lavorare dove sono nati.