Non chiedere mai ad un malato terminale: “Come stai?” e neppure dire “ti capisco” o “abbi pazienza”. Meglio chiedere: “Come posso aiutarti?” oppure: “Come è andata la notte?”.
Queste persone non ci chiedono una risposta ma la condivisione di una verità e il loro dolore ha bisogno di spazio, di essere ascoltato e magari anche urlato. E rispettato perché, come dice il piccolo principe nell’omonimo romanzo di Saint-Exupéry, “è talmente misterioso il mondo delle lacrime!”.
Ne è convinto don Carlo Abbate, da 14 anni cappellano a Roma dell’hospice Villa Speranza (Asl Roma1), struttura residenziale con 30 posti letto nella quale vengono accolte circa 450 persone l’anno, che nell’ambito della Giornata di studio per assistenti spirituali e cappellani degli hospice, promossa dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, ha offerto un importante contributo sui modelli di assistenza e accompagnamento al morente.
“La sedazione palliativa profonda non è assolutamente un atto eutanasico – chiarisce don Carlo sgombrando così il campo da ogni possibile equivoco tra sedazione profonda -”. Si tratta invece di untrattamento sanitario previsto dalla legge sulle cure palliative per consentire ad un paziente in fase terminale di non provare dolore quando ogni altro trattamento farmacologico risulta ormai inefficace.
“Noi cappellani di hospice - racconta don Abbate - ci troviamo a combattere con il tempo che sta per finire che genera paura; con il tempo che rimane che genera ansia; insomma con un mix di emozioni, dolore, fragilità e sofferenza. Molte, e dolorose, le domande o le esclamazioni di chi sa di essere giunto all’ultimo miglio: ‘Che ho fatto di male? Perché proprio a me? È questa la bontà di Dio? Dio mi ha abbandonato! Sto scontando le mie colpe! Non ho più tempo! Ho paura! E dopo?’”. Che fare? “Imparare - risponde il sacerdote - a stare accanto senza atteggiamenti clericali; senza dire ‘ti capisco’, che non è vero perché non sto vivendo quello che loro stanno vivendo, o ‘bisogna avere pazienza’ o, peggio, ‘per entrare in paradiso bisogna prendere la propria croce”. Occorre piuttosto “ascoltare il pianto, la rabbia, lo sfogo; se possibile incoraggiare il dialogo a ma non avere paura del silenzio se chi abbiamo di fronte ci chiede semplicemente di stargli vicino”. Ma neanche del rifiuto perché “certe reazioni non sono rivolte a noi”. Don Abbate ricorda la visita all’hospice, due anni fa, di Papa Francesco. “Gli dissi: io qui celebro 30 messe al giorno;
ogni letto è un altare e su ogni letto c’è quel Cristo crocifisso che noi tentiamo di portare ad ogni persona”.
Occorre, chiosa, “partire dalla dimensione orizzontale per arrivare eventualmente a quella verticale, ognuno secondo la propria fede”. In 14 anni don Abbate ha seguito quasi 6.700 persone, eppure il mistero della morte “umanamente fa paura, come ha fatto paura a Gesù nell’orto dei Getsemani. Per questo, oltre ad una seria formazione, occorre “avere compagni di viaggio con cui confrontarsi”.