Nei giorni scorsi l’Aigoc (Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici) ha denunciato con preoccupazione l’annuncio del vice ministro della Salute, Pierpaolo Sileri, in commissione Sanità al Senato, dell’inserimento nelle prestazioni erogabili dal Ssn degli screening prenatali non invasivi (Nipt).
I ginecologi cattolici temono che l’anticipazione della diagnosi dello stato di salute genetico del proprio figlio possa tradursi in “un elemento facilitatore dell’aborto eugenetico”. Ne abbiamo parlato con il presidente Giuseppe Noia, che è anche consultore del Dicastero laici famiglia e vita e presidente della Fondazione “Il cuore in una goccia” onlus che nei mesi scorsi ha avviato un progetto di ricerca sulla Trisomia 21, il Progetto Down, “per aprire – spiega – una finestra di speranza per le famiglie che ricevono una diagnosi prenatale di Trisomia 21”.
Quali difficoltà incontrano i genitori che decidono di tenere il loro bambino, nonostante sia in una condizione di fragilità o disabilità?
Di fronte ad una diagnosi prenatale di disabilità, la tendenza ‘eugenistica’ diffusa spinge all’interruzione di gravidanza secondo il criterio in base al quale si tenta di eliminare la sofferenza eliminando il sofferente. Una questione che non deve allarmare solo i cattolici perché costituisce a tutti gli effetti una devastazione dell’umano. Chi è in una condizione di fragilità soffre e crea sofferenza in chi lo accudisce: andrebbe per questo eliminato? Genitori che decidono di tenere un bambino ‘non perfetto’ secondo i canoni della nostra società, vengono spesso tacciati di essere egoisti e irresponsabili e si trovano ad attraversare un universo di mancanze.
Che cosa intende dire?
Anzitutto mancanza di un riferimento medico che possa dire in scienza e coscienza come sta realmente quel bambino, e poi abbandono terapeutico: in nome della cosiddetta medicina difensiva, e per timore di richieste risarcitorie, i medici rinunciano a seguire questo tipo di gravidanze. A questo si aggiunge la sottile insinuazione: “chi te lo fa fare a tenere questo bambino che condizionerà la tua vita per sempre?”. Pressioni psicologiche rivestite di argomentazioni apparentemente razionali e ispirate a buon senso.
Lei spesso denuncia una scarsa cultura del prenatale nel nostro Paese.
La solitudine, la scorrettezza nell’informazione, l’abbandono terapeutico che scontano queste famiglie sono spesso frutto di una scarsa cultura del prenatale, anche nella classe medica. In Italia solo il 15% delle coppie fa la visita preconcezionale; nel nostro Paese, a differenza di altri, manca questa cultura che costituisce un passaggio importante dall’informazione alla conoscenza.
Perché vi preoccupa l’eventuale inserimento nei Lea degli screening prenatali non invasivi?
In Italia il 90% delle diagnosi prenatali di sindrome di Down viene indirizzato all’Ivg. Con l’inserimento nei Lea di questi screening prenatali non invasivi - che nel privato possono costare dai 400 ai 1200 euro - i cosiddetti aborti terapeutici, che sarebbe più corretto chiamare eugenetici perché di terapeutico non hanno nulla dato che provocano la morte di un bambino e hanno un tremendo impatto sulla salute psicologica della madre, rischiano di aumentare ulteriormente. Inoltre si insinua in modo sottile il concetto del “più è piccolo l’embrione, minore sarà il trauma”, mentre autorevoli studi scientifici dimostrano che la sofferenza psicologica di una donna non è proporzionale alla grandezza o alle settimane di vita del feto.
In questo orizzonte si inserisce il “Progetto Down”. Di che si tratta?
Lo abbiamo lanciato da qualche mese con l’associazione “Il cuore in una goccia” in collaborazione con l’Università Cattolica e si articola su due livelli di studio. Il primo consiste in una linea di ricerca che andrà a validare una serie di ipotesi sulle cause della sindrome; il secondo nello studio di nuove possibilità di cura prenatale con approcci terapeutici finalizzati a ridurre il danno neurocognitivo del bambino con sindrome di Down prima della nascita. Anziché abbandonare le famiglie dopo la diagnosi di Trisomia 21 grazie ad un test genetico molto precoce che si può effettuare a 12-13 settimane, già alla fine del terzo mese si possono aprire finestre di speranza proponendo anche in via sperimentale alcuni integratori che non hanno dimostrato rischi. Impiegando cioè grandi quantità di antiossidanti che attraverso la placenta arrivano al sistema nervoso centrale del bambino, che si organizza soprattutto tra la fine del terzo e del quinto mese, per ridurre il danno ossidativo creato dal cromosoma in più a carico dell’organizzazione cerebrale del bimbo Down. Ma occorre intervenire in epoca prenatale.
Dunque lei non è contrario in linea di principio al test precoce sul Dna fetale?
Assolutamente no, a condizione che non sia contro la persona ma a suo favore. La scienza deve andare avanti: la questione è se viene usata per o contro la persona. La consegna dei risultati alle coppie va però fatta all’interno di una consulenza con professionisti competenti in grado di accompagnare dopo una diagnosi di Trisomia 21, 18 o 13 o di gravi malformazioni. Noi lo facciamo con la nostra associazione: abbiamo accompagnato più di mille famiglie che hanno accolto il proprio figlio anche se “fragile”. Questo è il modo di fare la medicina condivisa: mettersi al fianco delle famiglie che hanno una fragilità prenatale. Madre Teresa di Calcutta, che nel 1981 ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica, è stata una grande fonte di ispirazione anche per la scienza. Ci ha dato gli occhi per vedere che è bello servire la fragilità. Il neonato, diceva, è il più povero tra i poveri. Io ho aggiunto: se poi è anche malformato è ancora più povero, se poi è incompatibile con la vita è il massimo della povertà. E lei: al massimo della povertà bisogna rispondere con il massimo dell’amore.