È stato prete solo 74 giorni, ma la sua testimonianza è viva ben oltre il limite del tempo. Otto anni fa suscitò profonda commozione in Italia la vicenda di don Salvatore Mellone, nato a Barletta nel 1977 e ordinato sacerdote il 16 aprile del 2015, due anni prima della data canonica perché affetto da una malattia incurabile che lo avrebbe portato alla morte poche settimane dopo l’ordinazione.
Papa Francesco gli aveva telefonato quando era ancora seminarista chiedendogli che lo benedicesse nella sua prima messa da sacerdote. La Radio Vaticana raccolse la testimonianza di don Salvatore subito dopo quella celebrazione così particolare, che aveva destato l’attenzione anche di non credenti colpiti da questo desiderio così grande che sfidava la morte: quello di consacrarsi a Cristo, di essere sacerdote anche fosse solo per un giorno.
“Penso proprio questo - affermò con voce emozionata - che man mano che si va avanti proprio nell’affrontare la malattia, giorno per giorno la malattia non è mai uguale, non è mai la stessa. Ti accorgi che comunque nonostante la difficoltà puoi andare avanti, nonostante la difficoltà c’è la speranza, c’è la bellezza di un qualcosa di molto più grande di noi. Questo Qualcuno molto più grande di noi si chiama Dio, si chiama Santissima Trinità”. E alla domanda su come avesse accolto quella inattesa richiesta del Papa di benedirlo nella sua prima messa rispondeva: “Con un po’ di trepidazione e, devo essere sincero, anche un po’ di imbarazzo perché può immaginare! Però con il cuore veramente pieno di gioia perché per noi tutti è un modello e per noi tutti è un maestro. Non possiamo fare altro che seguirlo, stargli dietro e benedirlo e continuare a pregare per lui”.
Sono passati otto anni e si può davvero affermare che don Salvatore Mellone è stato chicco di grano che, morendo nella terra, ha dato molti frutti. Anche spirituali. Proprio in questi giorni, è stato pubblicato dalle Edizioni San Paolo una raccolta di suoi pensieri e meditazioni, intitolata Il sussurro di una brezza leggera. “Dall’esperienza di vita di mio fratello - ci confida oggi sua sorella Adele - sento davvero che cos’è la risurrezione. Nell’esperienza di Salvatore, come sorella mi porto questa certezza: che anche se un corpo non c’è più, comunque la vita continua”. Segnato, dunque, ma non vinto dalla sofferenza, don Salvatore amava ripetere che “essere prete è bello, ma nella mia condizione ti lascia senza fiato”. E ancora in uno scritto sottolineava che “l’aderire ai dolori immensi del Cristo, così come fanno tanti altri miei fratelli, spalanca varchi di luce sul mistero del soffrire”. Nella testimonianza di chi gli è stato vicino, colpiva per il suo essere gioioso, nonostante sapesse bene che la sua vita avrebbe avuto una parabola molto breve e dolorosa. “A proposito del sacerdozio - ricorda la sorella - quando ancora non si parlava dell’ordinazione, lui era fermamente convinto che Dio l’avrebbe comunque fatto sacerdote dopo la morte. Poi, quando è arrivata la notizia che sarebbe stato possibile, in anticipo sui tempi, per lui è stata veramente una gioia piena, una gioia vissuta veramente nel Signore. A distanza anche di otto anni, sinceramente non riesco a spiegarmi come una persona che si stava consumando fremeva di gioia per questo incontro con il Signore”.
Un incontro con Gesù che è stato fecondo trapassando la barriera della vita terrena, come ci racconta Adele. “Mio fratello - rammenta - aveva il desiderio di aiutare quelli che lui chiamava i miei compagni di viaggio, gli ammalati. Un giorno ci chiamò - eravamo mamma, papà e io - e ci parlò di un progetto, un sogno, e poi ne parlò con altri amici. Salvatore, nelle sue sedute di chemioterapia, nei suoi ricoveri, aveva visto tanta sofferenza, l’aveva toccata con mano e quindi voleva cercare di fare qualcosa di buono per gli altri anche se era consapevole che lui non l’avrebbe visto questo progetto. Ce lo disse proprio: ‘Non preoccupatevi, perché io vi vedrò da dove sarò’. Il progetto era questo: aiutare gli ammalati oncologici che si curano all’ospedale di Barletta”.
L’anno scorso questo sogno è diventato realtà. Nel settembre 2022 è stata infatti inaugurata Casa Miriam (in onore della Vergine Maria), una piccola struttura in un appartamento della famiglia Mellone, che dà accoglienza ai malati di tumore e ai loro familiari. Ad accogliere gli ospiti sono i volontari dell’associazione “Buon Samaritano”. Significativamente sia il nome della casa che dell’associazione sono stati indicati da don Salvatore negli ultimi giorni della sua vita. “Casa Miriam - spiega Adele - è un appartamento semplice e viene gestito dai volontari dell’associazione, che si prodigano per queste persone malate nelle loro necessità, dalla compagnia pomeridiana alla spesa, dall’accompagnamento al trasporto in ospedale per le cure. Quel poco che facciamo, lo facciamo con il cuore e questo vale anche per i volontari che hanno abbracciato il progetto”.
Il sacerdozio “breve”, eppure, “infinito” di don Salvatore Mellone si è espresso quindi anche nella forma dell’amore, della carità verso chi soffre. Anche questo, del resto, era già pienamente vissuto nel suo ministero presbiteriale. “Alla fine - confidava in quella intervista così speciale di otto anni fa - le paure, anche le incongruenze umane, quelle restano sempre, perché siamo persone, ma la prospettiva è altra: la prospettiva è quella di un amore caritatevole che ci abbraccia. E quindi senza questo amore caritatevole che ci abbraccia anche la vita terrena stessa, anche la sofferenza stessa, non avrebbe senso. C’è questa proiezione, che non è una proiezione sterile, ma è una proiezione concreta verso un qualcosa di molto più grande, di molto più bello”.
*Vatican news