Il senso di colpa di Raimondo Marino, ex difensore del Lecce, ma già compagno di squadra di Diego Armando Maradona, il ‘dio del calcio’ morto ieri per un arresto cardiaco.
Erano insieme al Napoli, nella stagione 1984-84, la prima del “Pibe de oro” in Italia, e nel campionato successivo. «Ho un bellissimo ricordo di lui. Prima di andare alla Lazio - racconta, commosso, l’ex stopper - stavamo sempre insieme, io ero quello che gli faceva i gavettoni in continuazione, poi io sono andato via, non ci sentivamo mai, ma quando ci vedevamo eravamo sereni».
Marino conferma l’attaccamento di Maradona a certi valori umani. «Era umano. Lui veniva da una famiglia povera. Solo che abbiamo sbagliato noi tutti a non aiutarlo, perché lo sapevamo che faceva uso di cocaina. Noi dovevamo, secondo me, circondarlo e tenerlo a casa nostra. Per primo io. Uno che fa uso di droga cerca sempre di scappare. Ho letto una dichiarazione che hanno fatto Rummenigge e Beckenbauer quando hanno visto Gerd Muller in un bar ubriaco: lo hanno salvato, gli sono stati vicini. A me, quello suscita rammarico. Ho cercato di mettermi in contatto con lui però è stato impossibile. Per farlo avvicinare a Dio, perché lontano da Dio succede questo». Si narra di uno screzio fra il difensore e il campione per un incontro di boxe: Patrizio Oliva affrontava un argentino. Nel 1986. Qualcosa fra i due calciatori cambiò. Ma per Marino era evidentemente acqua passata. L’ex giocatore del Lecce voleva aiutare l’ex compagno di squadra. Racconta: «Io non avevo legami come ce l’avevano gli altri giocatori che sono stati con lui in squadra. Ultimamente, volevo parlargli di Dio, perché sono un evangelico cristiano. Mi hanno detto che era impossibile, che non rispondeva a nessuno. Ero disposto anche a stare qualche giorno in Argentina. Il mio rammarico è di non aver insistito, mi sento in colpa. Un campione come lui magari si poteva ravvedere dalla cocaina».
Pochi incontri fra Marino e Maradona. «Non mi sentivo mai con lui - riferisce il difensore -, ma quando faceva delle feste lui mi invitava. Però non avevo quel legame forte che avevano Ferrara, Bruscolotti, Pasculli, Bagni, Giordano». Cosa resta del dio del calcio a Raimondo Marino? «L’umiltà che aveva: ti metteva a tuo agio. Era disposto anche a giocare sui campi brutti pur di far sorridere le persone (per beneficenza; ndr). Pure quando giocava a Posillipo, ai campi di calcetto, lui giocava tranquillamente, non era di quelli che si atteggiavano».