Al termine dei tre mandati previsti dallo Statuto, il prof. Claudio Marazzini ha lasciato l’incarico di presidente dell’Accademia della Crusca che ricopriva dal 2014 ed è stato nominato presidente onorario. Nuovo presidente dell’Accademia è stato eletto Paolo D’Achille, fino a oggi vicepresidente.
Prof. D’Achille, qual è a suo giudizio il ruolo attuale della Crusca nel panorama accademico e culturale?
La Crusca potrebbe avere un grande ruolo: oltre a essere custode della tradizione linguistico-letteraria italiana (attraverso la biblioteca, l’archivio, ecc.), si occupa anche della lingua di oggi; tra gli accademici ordinari e gli accademici corrispondenti italiani ed esteri annovera studiosi e studiose di primissimo piano; c’è poi una équipe di giovani che lavorano su vari progetti (il già ricordato Servizio di consulenza linguistica, il “Vocabolario dantesco”, il “Vocabolario della marina”, tanti altri settori). Collaboriamo con altre accademie italiane ed europee, con molti atenei e centri di ricerca e col mondo della scuola. Rispondiamo sempre positivamente alle richieste che vengono dalla società civile e dagli ordini professionali (corsi per giornalisti, magistrati, ecc.) e dalle istituzioni (collaboriamo col ministero degli Esteri per la Settimana della lingua italiana del mondo e con il ministero dell’Istruzione per i Campionati di italiano). Su certi temi, probabilmente, potremmo fare ancora di più.
Come giudica lo stato di salute della lingua italiana oggi?
In generale, abbastanza buono: l’italiano è ormai madrelingua per la maggior parte della popolazione (che in passato, invece, nasceva dialettofona), compresi i figli di immigrati ormai stabilizzati nel nostro paese (i cosiddetti “nuovi italiani”). Abbastanza soddisfacente (anche in rapporto alle limitate risorse) lo studio dell’italiano all’estero. Però i dislivelli di competenze linguistiche presso i giovani aumentano, in rapporto alle diverse classi sociali e la scuola sta un po’ perdendo il suo ruolo di “ascensore sociale”, forse anche perché lo studio della lingua e della letteratura italiana non è più considerato centrale. Si sta poi allargando la forbice tra la lingua di oggi e la lingua del passato, della tradizione letteraria che fa capo a Dante; è necessario un maggior dialogo intergenerazionale e bisogna che l’insegnamento/apprendimento della lingua (anche nelle sue strutture grammaticali) e della letteratura italiana, adeguatamente rinnovato, sia più gratificante per docenti e discenti.
Cosa pensa dell’eccesso di anglismi?
Le parole straniere entrano in un’altra lingua in rapporto al prestigio della lingua da cui provengono (si parla, impropriamente, di “prestiti”). Se l’inglese (o meglio l’angloamericano) è oggi dominante in tutto il mondo, ciò deriva dal fatto che i Paesi anglofoni sono all’avanguardia in certi settori (e certo la globalizzazione aiuta a diffondere tanto l’inglese in generale quanto gli anglismi), è normale che il numero degli anglismi cresca anche nella lingua comune. Che però ricorra spesso all’inglese anche la comunicazione degli enti pubblici (nazionali o regionali), che si rivolgono all’intera cittadinanza (composta di molte persone che non conoscono l’inglese) mi pare inaccettabile. E poi ricorrere all’inglese quando abbiamo già le parole per esprimere gli stessi concetti mi pare inutile.
Le parole alla moda che vorrebbe togliere dal parlare comune della gente?
Se si tratta di parole di moda, usciranno da sole (la moda cambia rapidamente), senza bisogno di interventi. Non voglio però eludere la domanda e le dirò che la pronuncia di performance con l’accento sulla prima sillaba, mi infastidisce, tanto più perché non corrisponde alla pronuncia inglese.
I giornali sono in crisi, si legge sempre meno. Questa inversione di tendenza come ha cambiato la nostra lingua? Internet favorisce la corretta diffusione dell’italiano?
Per la verità la lettura è sempre stata alquanto scarsa nel nostro Paese. È vero però che la lettura su internet, compresa quella dei quotidiani, è oggi diventata predominante. Certo, il nuovo mezzo ha avuto conseguenze anche per la nostra lingua: l’ha semplificata nelle strutture sintattiche (il che potrebbe anche essere un fatto positivo), ma l’ha anche un po’ impoverita, perché la fretta della composizione e l’assenza di rilettura porta spesso a usare frasi fatte, ad adoperare parole con un significato approssimativo, a non dominare appieno l’impianto testuale e informativo.
Cosa resta dei dialettalismi? La lingua italiana attuale ha ancora un riferimento al toscano?
I dialettalismi sono tuttora presenti e anzi alimentano il lessico italiano (per esempio nel campo della cucina). Il riferimento al toscano sussiste nelle strutture fonetiche e morfologiche dell’italiano, che ne mostrano la loro sostanziale fiorentinità. Meno rilevante è l’apporto del toscano per quanto riguarda la fonetica (l’italiano di Firenze si deve considerare una varietà locale come quelle di Torino, Milano, Roma e Napoli), la fonologia (certe “idiosincrasie fiorentine” non sono più attive nell’italiano di oggi) e anche nel lessico (in cui le parole toscane cedono spesso ai geosinonimi settentrionali, romani e meridionali.
Infine la questione del genere. Che ne pensa delle forme linguistiche inclusive, a cominciare dallo schwa (ə)?
Mi sono espresso su questo già in vari contributi apparsi sul sito dell’Accademia e rimando a quelli: posso dire che accolgo tutte le femminilizzazioni dei nomi di cariche e professioni un tempo solo maschili e che ritengo che lo schwa sia inapplicabile a una lingua come l’italiano a tutti i livelli di analisi linguistica (grafia, fonetica, fonologia, morfologia, lessico, sintassi e testualità).