“La Chiesa è minoranza creativa, ma è anche popolo. Tante persone che definiamo lontane sono invece vicine, siamo noi che ci siamo allontanati pensando che la colpa fosse di altri”.
Il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, parla a pochi giorni dalla ricorrenza del primo anno di guerra in Ucraina e in vista del decimo anniversario del pontificato di Bergoglio.
Eminenza, nel messaggio di ringraziamento dopo la nomina a presidente della Cei ha auspicato “una Chiesa che si rivolge a tutti, che vuole raggiungere il cuore di tutti e che parla, nella babele di questo mondo, l’unica lingua dell’amore”. È una missione ambiziosa in un tempo in cui la Chiesa è diventata una minoranza che rischia di essere, per certi versi, irrilevante?
La Chiesa è minoranza creativa, ma è anche popolo. Tante persone che definiamo lontane sono invece vicine, siamo noi che ci siamo allontanati pensando che la colpa fosse di altri. Non abbiamo camminato con loro. Adesso stiamo ritrovando sofferenze, domande e distanze. Ma questo fa bene alla Chiesa. Il Signore non condanna, il Signore salva. Bisogna imparare a vedere e a riconoscere il tanto bene che c’è. Non dobbiamo cercare una Chiesa che non esiste. Nelle nostre contraddizioni e nel nostro peccato, scorgiamo la presenza del Signore ovunque. La santità della porta accanto.
Il Cammino sinodale delle Chiese in Italia si pone in questo solco?
Sì. Il problema è anche imparare a camminare insieme. Non dobbiamo, infatti, andare in ordine sparso. Mettere al centro Gesù, ascoltare i tanti compagni di strada, riscoprire la bellezza del Vangelo oggi, imparare a camminare insieme: sono le sfide che stiamo affrontando. La Chiesa è sinodale in questo senso.
Il 13 marzo si celebra il decimo anniversario dall’elezione di Papa Francesco. È una data tonda che può essere l’opportunità per fare anche un bilancio del pontificato. Come è cambiata la Chiesa in questo decennio e, soprattutto, dove sta andando?
La Chiesa procede nella direzione tracciata da Benedetto XVI e raccolta da Francesco. Il passaggio è stato l’Anno della fede, iniziato da Ratzinger e concluso da Bergoglio. La prima enciclica “Lumen fidei”, scritta a quattro mani, è un chiaro messaggio. Non a caso Francesco ha voluto fare sue le parole del predecessore e aggiungere il suo contributo. È un fatto che non si è verificato di frequente nella storia della Chiesa. È un’indicazione importante di continuità. Durante l’Anno della fede, Benedetto XVI si interrogava sulla desertificazione spirituale e ricordava che nel deserto c’è ancora di più il desiderio dell’acqua. Era il suo invito a rimettersi in cammino, senza condannare o prendere le distanze per proteggere la nostra identità chiudendoci in luoghi protetti. Ratzinger ci sfidava a scendere in strada e Francesco ha iniziato a farci vivere questo invito, talora costringendoci. Perché a volte preferiamo le belle dichiarazioni, senza tradurle in fatti concreti. Non servono tante scarpe per mettersi in cammino, occorre iniziare a farlo e basta. Papa Francesco, con senso evangelico, ci aiuta a metterci in viaggio. Alcuni possono essere disorientati da questo approccio, ma è un disorientamento sano che ci spinge a mettere al centro Cristo.
Pochi giorni fa si è ricordato il primo anniversario di una guerra al centro dell’Europa, combattuta tra popoli fratelli. Talvolta sembra che anche le religioni fatichino a trovare parole che favoriscano un dialogo vero. Lei è da sempre un promotore della pace in ogni angolo del mondo. Che spazio vede per trovare una soluzione a questa tragedia e per continuare a lavorare affinché ci sia pace in Europa?
Non ci dobbiamo abituare alla guerra e alla violenza. Non dobbiamo mai rinunciare alla ricerca della pace. L’abitudine porta alla rassegnazione e si accetta la guerra come unica via possibile. Ma la vera vittoria è sempre la pace. Lo sforzo da compiere è aprire tutti gli spazi possibili per interrompere la logica della guerra, iniziata da un aggressore. Dialogo e giustizia, pace e giustizia devono andare d’accordo. Chi cerca la pace, trova anche la giustizia. Con l’insistenza della povera vedova, bisogna cercare la via della pace. E cercare la pace non è mai complicità con il male o arrendevolezza.
Dal Myanmar all’Afghanistan, dallo Yemen all’Etiopia. Le circa 60 guerre attualmente in corso nel mondo definiscono anche una geografia di popoli in cammino, con 90 milioni di profughi censiti dall’Onu a livello mondiale. Solo dalla Siria, che a inizio febbraio è stata colpita insieme alla Turchia da un terremoto che ha provocato oltre 50 mila morti, nei 12 anni di guerra quasi 7 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa. Che risposta può dare la Chiesa?
L’accoglienza è l’unico messaggio possibile. Chi non ha casa, va accolto. Dobbiamo metterci sempre nei panni degli altri. Chi ha perduto tutto e deve scappare, deve trovare accoglienza. Non ci sono alternative. Quello all’emigrazione era un diritto garantito per tutti gli uomini, prima che sorgessero muri e nascessero paure. Tanto più per chi scappa da guerra, violenza o fame. Mettere in contrapposizione questo con il nostro futuro, significa non volere il futuro. L’accoglienza apre al futuro, la chiusura fa perdere anche il presente.
La presenza sociale è un tratto distintivo della Chiesa in Italia. In particolare, l’attenzione alle fragilità, che la pandemia ha in larga misura acuito. Da questo punto di vista, non si contano le iniziative messe in campo e l’attenzione costante ai problemi delle persone con una rete di carità in tutta Italia. Cosa si aspetta su questo versante dal dialogo con il Governo?
La Chiesa parla con le istituzioni con rispetto e laicità, ma anche con la libertà necessaria per trovare le risposte alla sofferenza delle persone e rimuovere le cause. Bisogna combattere la povertà, non i poveri. Riavviare l’ascensore sociale che spinge verso il basso. La consapevolezza sofferta della pandemia e della guerra ci deve mettere urgenza, responsabilità e visione. La Chiesa non smetterà di fare assistenza, dando una risposta immediata, ma anche di coinvolgersi affinché la persona sia sempre al centro dello sforzo delle istituzioni.