C’è un momento fondamentale nella storia dell’umanità in cui tutto è cambiato: quel mattino in cui un uomo è uscito vivo dal sepolcro!
Da quell’istante la morte non è più stata la parola definitiva sul destino umano, ma l’inizio di una nuova esistenza, di una nuova vita, quella vera, inaugurata dall’umile figlio del falegname di Nazareth: Gesù!
Questo momento cruciale è avvenuto tanti anni fa, intorno all’anno 30 dell’era cristiana, per Gesù. I suoi discepoli hanno interpretato tale evento come il punto di arrivo della storia che lo ha preceduto e il punto di partenza di ciò che seguirà e hanno cominciato a delineare, attraverso racconti scritti, le tappe significative della sua vita, dall’incarnazione all’invio dello Spirito Santo.
Tale evento, chiamato “pasqua”, che fonda il cristianesimo e la sua visione dell’uomo e del cosmo, è il passaggio di Cristo, attraverso la sua passione, per giungere alla risurrezione e alla glorificazione. I cristiani, da duemila anni, continuano a celebrare questo evento, ovvero il “mistero pasquale”, nel primo giorno della settimana, chiamato proprio per questa ragione dies Domini, “giorno del Signore”, cioè del Risorto, con una cadenza ritmica, con una frequenza settimanale, determinata dal susseguirsi delle apparizioni, avvenute “otto giorni dopo”.
Da questo nucleo germinale e germinante della domenica come “piccola pasqua della settimana” e festa primordiale, ben presto i cristiani hanno cominciato a celebrare il mistero pasquale in modo più solenne in quella “grande domenica dell’anno” chiamata “Pasqua” per antonomasia. Una festa alla quale ci si prepara con un itinerario di quaranta giorni, che culmina nella “grande settimana” dell’anno liturgico, in cui la Chiesa segue, passo dopo passo, nelle sue celebrazioni, gli ultimi eventi della vicenda terrena di Gesù. Nella tradizione ecclesiale, questa settimana è chiamata “santa”, per i grandi avvenimenti che in essa si celebrano: il solenne ingresso di Gesù a Gerusalemme, la passione, la morte, la sepoltura, la risurrezione del Signore. Sono gli avvenimenti che hanno segnato per sempre la storia dell’umanità e costituiscono l’oggetto e il fondamento della fede e della vita dei cristiani.
Significativa ed eloquente è la riflessione di San Paolo VI, nella catechesi del mercoledì 6 aprile 1966, quando afferma: “Se v’è liturgia, che dovrebbe trovarci tutti compresi, attenti, solleciti e uniti per una partecipazione quanto mai degna, pia e amorosa, questa è quella della grande settimana. Per una ragione chiara e profonda: il mistero pasquale, che trova nella Settimana Santa la sua più alta e commossa celebrazione, non è semplicemente un momento dell’anno liturgico; esso è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell’anno liturgico stesso, perché tutte si riferiscono al mistero della nostra redenzione, cioè al mistero pasquale”.
Se il centro della fede cristiana è l’evento della passione, morte e risurrezione del Cristo, il fulcro dell’anno liturgico della Chiesa non può non essere il mistero di Cristo, celebrato nella grande Settimana Santa. Da esso derivano e ad esso convergono tutte le altre celebrazioni lungo il corso dell’anno, così come da esso promana la forza santificante e santificatrice di tutti i sacramenti e dei sacramentali. La liturgia della Settimana Santa getta una luce nuova sull’uomo, sulla sua storia, sul suo destino, sulla sua vocazione ad essere in Cristo una nuova creatura.
Non sono avvenimenti consegnati agli archivi della storia quelli che la Chiesa ci fa celebrare ogni anno nella Settimana Santa, né va considerato come un personaggio storico, sia pur straordinario, l’uomo di cui essi parlano. Non sono avvenimenti da ammirare, ma eventi da imitare e nei quali essere coinvolti, e Gesù non è un eroe da esaltare ma un “vivente” e “contemporaneo” da seguire.
Celebrare, dunque, ogni anno i riti della Settimana Santa non significa ammirare a distanza i gesti e le parole di Gesù, ma essere coinvolti nella sua vicenda paradossale, nella consapevolezza che essa ha ancora da dire qualcosa all’uomo di oggi, affetto da “retrotopia”.
La passione, morte e risurrezione di Cristo è ancora oggi evento “salvifico” per coloro che ad essa aderiscono con la propria esistenza, perché - come ricorda San Leone Magno - “quel giorno non è passato in modo che sia passata anche la forza intima dell’opera che fu allora compiuta dal Signore”.
Fare la Pasqua – amava affermare don Primo Mazzolari, indicato da Papa Francesco come profeta e testimone di una fede esemplare – è come fare la primavera: “Non si assiste allo spettacolo della primavera o, se mi pare di assistere alla meraviglia di essa, m’accorgo che sono anch’io nella primavera, che io stesso sono la primavera e che la rinascita della natura è un poco la mia stessa rinascita e che il mio comprendere e godere la primavera è regolato dalla mia partecipazione”.
La Chiesa, celebrando i divini misteri, non vive la nostalgia del passato storico di Gesù, ma confessa la sua fede nella presenza attuale del Signore crocifisso e risorto e si proietta nella speranza verso il compimento definitivo alla fine dei tempi. Celebrare il memoriale della Pasqua del Signore, dunque, significa divenire contemporanei del Signore. Vivere i giorni santi significa essere contagiati da quell’“escatopia” salvifica che il Risorto continua ad elargire alla sua Chiesa.
La contemporaneità è la condizione essenziale perché ciascuno possa diventare davvero discepolo del Signore, rispondendo al suo invito a prendere ogni giorno la propria croce e a seguirlo sulla via verso Gerusalemme. Per meglio vivere i riti della Settimana Santa, non basta, dunque, essere “ammiratori” di una storia, ma è necessario diventare “imitatori” di un evento, quello salvifico, che ha in Cristo, morto e risorto, il suo nucleo vitale.