Al suo apparire l’umbrellaru, che si annunciava col grido “ggiusta ombrelle”, aggiusta ombrelli, veniva avvicinato da chi possedeva un parapioggia malconcio per via di qualche strappo alla stoffa, di un manico incastratosi, delle stecche metalliche stortesi in un giorno di pioggia intensa mista a raffiche di vento.
Girava a piedi o, tutt’al più, in bicicletta, portando appresso i ferri del mestiere: innanzitutto le citate stecche, nuove o, a loro volta, recuperate da altri ombrelli inservibili, filo di ferro, pinza, tanaglia, forbici e un grasso che applicava al sistema di apertura e chiusura. Raramente aveva con sé ombrelli nuovi che cercava di vendere, senza molto successo, per arrotondare il modestissimo guadagno ottenuto dalle riparazioni.
Le stecche degli ombrelli che non si potevano riparare, le trasformava in acuceddhre, aghi piatti, quelli che, muniti di uno spago lungo, servivano alle operaie per infilare le foglie di tabacco ed ottenere la ‘nzerta, la filza di tabacco; i ferretti quadrati invece servivano alle massaie per cavare li minchiarieddhri, i maccheroni fatti in casa.
Per approfondimenti:
- R. Barletta, Ci tene arte tene parte, Grifo, Lecce 2011