In ambito rurale era alquanto frequente che il maniscalco fosse anche ferraru, fabbro, e coadiuvasse l’ascularu, il carpentiere che esercitava l’arte crossa, arte grossa, cosiddetta per la preponderante lavorazione di legni grossolani come la ulìa, l’olivo, la lezza, il leccio, lu fau, il faggio, con cui costruiva carri, aratri, mortai, llaturi, lavatoi, mattarelli e, a tempo perso, curruli, trottole, che rivendeva ai mercati o alle fiere paesane.
A lui spettava il compito di costruire le parti metalliche di traini e di carrozze, di tinelle, utti, uttuni, e utticeddhre, tini e botti di diversa capienza; inoltre realizzava tutti quegli utensili di largo uso sia in agricoltura (zappe, vanghe, falci, etc.), sia nell’edilizia sia dagli scalpellini (sgorbie e scalpelli) che dai falegnami (chiodi, serrature, cerniere, etc.).
Nella cultura popolare vi è un modo di dire che sintetizza il mestiere di fabbro in antitesi con quello del falegname: ferraru curtu e mesciu t’ascia lengu, letteralmente fabbro corto e falegname lungo; sottintende che il fabbro, se sbagliale misure della barra di ferro che lavora, può sempre rimediarle, non così accade al falegname il quale prudenzialmente deve attenersi a misure piuttosto abbondanti nel tagliare il legname che può accorciare secondo le esigenze.
Per approfondimenti:
- Barletta, Ci tene arte tene parte, Grifo, Lecce 2011