In una stagione intasata dagli slogan, attraversata da spinte disordinate e confuse, l’arcivescovo Michele Seccia ha scelto, per il tradizionale Messaggio alla città - in occasione della celebrazione dei Santi Patroni - un linguaggio asciutto, lineare, semplice e però preciso, incisivo, coinvolgente e carico di tensione progettuale.
Libertà e corresponsabilità sono due facce della medesima medaglia. L’epidemia si può sconfiggere soltanto con una forte intesa fra tutti, nel rispetto attivo e continuo delle regole. Chi nega l’evidenza, fa un torto alla propria intelligenza e mette a rischio la propria e l’altrui incolumità. Siamo sulla stessa barca e soltanto se procediamo in piena sintonia - e quindi in spirito di corresponsabilità - possiamo davvero dire d’essere popolo. G. Mameli ci ricorda: “Noi fummo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”.
Con molto garbo e quasi con discrezione, mons. Seccia dice: Mi sembra che siano in aumento i seminatori della divisione e che, invece, diminuiscano i bravi “contadini” sempre pronti a rassodare il terreno delle coscienze.
Sicuramente, come già aveva detto il Papa, la pandemia ci ha preso alla sprovvista come una tempesta inaspettata e furiosa; ma adesso, almeno, ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca.
Mons. Seccia si augura che la pandemia sia almeno servita a farci cambiare prospettiva, insegnandoci l’essenzialità della vita, introducendoci ad una esperienza di autentica conversione, incentrata sull’amore vicendevole, declinazione evangelica della più laica “solidarietà”. Nessuno può pensare di andare avanti per conto proprio, senza tener conto degli altri.
L’arcivescovo non usa mezzi termini: dobbiamo saper accogliere le mille povertà prodotte o evidenziate dalla pandemia. Come possiamo parlare di ripartenza, se c’è qualcuno che ha perduto il lavoro e non sa più che cosa fare? Aggiungiamo noi: bisogna difendersi da due diverse ed opposte tentazioni. Da una parte c’è chi strilla che tutto è passato, per avere l’alibi di abbandonare restrizioni e vincoli. E, dall’altra, c’è chi predica le restrizioni, ignorando totalmente le tante forme di disagio e di criticità che pur ci sono.
Occorre, allora, “aprire gli occhi, il cuore e anche il nostro portafogli alle povertà”, dice Seccia. Non si tratta di elemosinare qualcosa: si tratta di remare insieme, assumendone gli oneri e imparando a condividerli. Bisognerà affrontare il presente e il futuro con grande flessibilità, tanta disponibilità e il massimo della solidarietà.
In questa direzione si muove anche il “Fondo San Giuseppe” che la Chiesa di Lecce sta mettendo a punto come risposta alle sfide di questo difficile momento. L’arcivescovo lo ha annunciato nel suo discorso, riservandosi di parlarne nei prossimi giorni. Per quel che ne sappiamo, il Fondo:
- a) si radica sul concorso di quanti possono e vogliono e nella misura in cui ciascuno lo vuole;
- b) si attiva nello scambio informativo fra offerta di lavoro (effettiva o anche soltanto potenziale) e domanda di lavoro sostenuta dal bisogno e dalla volontà di rimettersi in discussione;
- c) si sviluppa attraverso l’esercizio e lo sviluppo delle competenze, grazie anche ad apposite attività di laboratorio e di formazione specifica;
- d) si apre alla verifica e all’aggiustamento in itinere, per affinare le procedure e renderle sempre più fluide ed efficaci.
Non si tratta, allora, di distribuire sussidi, ma di creare condizioni di emancipazione e di lavoro, con il concorso di quanti nella comunità possano agire a supporto dell’intero progetto.
In una sola parola si tratta di crescere come comunità. Tutti insieme. Remando sulla stessa barca, in navigazione verso il bene comune.